VOCI DALLE COOPERATIVE - ALL'EPOCA DEL COVID. Alla Pani e Peschi, casa per adolescenti interrotti

2020 04 03 covid paniepeschiIl giorno in cui sono arrivate le mascherine chirurgiche, insieme alla disposizione per cui anche gli operatori delle comunità di accoglienza avrebbero dovuto indossarle durante il turno, si sono guardati in faccia e prima di andare a spiegarlo ai ragazzi hanno deciso di immortalare quel momento con un selfie perché, si sono detti, “questo periodo ce lo ricorderemo per sempre”.

Sono una ventina le persone che lavorano alla Pani e Peschi, comunità di neuropsichiatria infantile al quartiere Gallaratese, periferia di Milano: sono educatori, terapisti della riabilitazione, infermieri, operatori socio sanitari, neuropsichiatre, psicologi, ma anche chi è addetto alle pulizie e alla cucina. Chi più ore, chi meno, sono loro a occuparsi del benessere e della vita quotidiana dei ragazzi accolti che in questo periodo – come tutti – sono confinati in casa. Li coordina Anna Carretta, 57 anni, che ci racconta come stanno affrontando questo periodo.

La Pani e Peschi attualmente ospita dieci adolescenti tra i 15 e i 17 anni (sette ragazze e tre maschi) che soffrono di disagio psichico.

«Abbiamo scelto fin da subito di mantenere aperta la comunità, ma per fare questo abbiamo dovuto attivare tutte le precauzioni richieste e raccomandate – ci racconta Anna – Fin dalla prima ordinanza che vietava solo gli assembramenti e imponeva la distanza sociale, abbiamo convertito alcuni colloqui in videochiamate. Una delle nostre neuropsichiatre, che è over 65, continua il suo lavoro con una consulenza e distanza. I laboratori espressivi e artistici con esperte esterne sono stati sospesi. Ma per il resto, siamo tutti in servizio».

E, probabilmente, servono tutte le forze possibili per continuare ad assicurare quel faticosissimo, precario equilibrio per cui stanno lottando degli adolescenti con disturbi psichici molto importanti.

Che la situazione si sarebbe complicata parecchio, alla Pani e Peschi l'hanno visto subito, quando il 23 febbraio, appena è stato dato l'annuncio della chiusura delle scuole, loro hanno fatto una riunione con i ragazzi per spiegare la situazione e che da quel momento non avrebbero potuto più uscire da soli, nemmeno nei momenti e negli spazi previsti dai loro percorsi.

«Nel giro di un'ora una delle ragazze era scappata. L'abbiamo rintracciata solo a sera, quando è arrivata a casa della madre, dopo aver preso treni e metro – racconta Anna, che spiega – Nelle comunità come la nostra le fughe sono episodi frequenti, ma in queste condizioni è tutto più difficile. Per poterli riammettere in comunità, dobbiamo prima portarli in pronto soccorso, fare degli esami, una visita medica, anche ginecologica... insomma, per protocollo bisogna accertare che stiano bene e che in quel tempo non sia accaduto loro niente. Quella sera, con i consultori chiusi e gli ospedali già in stato d'allerta, è stato difficile trovare gli spazi medici per fare questi accertamenti in sicurezza».

E ancora. «Appena abbiamo sospeso gli incontri con il neuropsichiatra, un altro dei nostri ragazzi ha ricominciato a tagliarsi. Abbiamo dovuto trovare dei compromessi in fretta, non possiamo pensare che per proteggerli da una parte, li mandiamo alla morte dall'altra».
Te li sbatte in faccia i problemi, Anna, ma quando hai a che fare con queste vite, i giri di parole non servono. Qui non si tratta di non poter fare jogging o annoiarsi senza un abbonamento a Netflix.

«Qui se si scompensano, questi ragazzi, noi dobbiamo chiamare le forze dell'ordine, che li portano in ospedale, che è il posto peggiore in cui posso mandarli in questo momento».

Dai governi, nazionale o regionale, non è arrivata nessuna indicazione su come comportarsi. Solo un documento dell'ATS, a metà marzo, che vietava gli incontri dei genitori in comunità, ma indicavano anche che ogni comunità mettesse in atto tutti i mezzi per evitare peggioramenti clinici che richiedessero ricoveri in ospedale.

«Noi ci siamo confrontati con tutte le altre comunità di neuropsichiatra. Alcune hanno chiuso tutto, ad esempio a Bergamo dove la situazione è veramente grave. Chi ha applicato rigidamente le regole si è trovato con reazioni distruttive, qualcuno ha dovuto essere ricoverato. Però ognuno ha scelto di muoversi a seconda dei ragazzi ospitati nella propria comunità».

E così hanno fatto alla Pani e Peschi. Hanno scelto di applicare tutte le regole di sicurezza e distanziamento, ma di non privarli del contatto con i familiari.

«Sempre valutato caso per caso, alcuni ragazzi ricevono la visita di un genitore, mantenendo la distanza, se è bel tempo anche nel nostro cortile. Altri hanno il permesso di andare a casa per qualche ora la settimana: un genitore lo viene a prendere in auto, si comportano con tutte le precauzioni che sono richieste agli operatori, a casa non ci deve essere nessun contatto a rischio, poi lo riporta – spiega maniacalmente Carretta – Ma pian piano stanno accettando le restrizioni, e ora siamo arrivati a chiedere lo sforzo finale di restare in comunità per le prossime due settimane».

Ma quali sono le regole che seguono gli operatori?

«Chi ha qualche sintomo, anche leggero, qualche febbriciattola, o tosse, raffreddore, rimane a casa per il tempo indicato dai medici. A inizio di ogni turno proviamo tutti la temperatura, entriamo dallo spogliatoio dove lasciamo i vestiti con cui siamo arrivati e ne indossiamo altri puliti per stare in comunità. A fine turno il procedimento contrario, e portiamo a casa tutto da lavare. Poi, dentro, indossiamo la mascherina, è prevista la disinfezione di mani e superfici più volte al giorno, e in questo lavoro coinvolgiamo anche i ragazzi. Cerchiamo di tenere il metro di distanza, ma è una cosa che per gli adolescenti è difficilissima, loro cercano la vicinanza».

Man mano che le misure diventano più stringenti, provano a metterla come un gioco.

Quando hanno separato il tavolone della sala da pranzo in tanti tavolini, si sono detti che era come stare al ristorante: «Una delle nostre ragazze, sempre vestita comoda, con la tuta, è arrivata a cena tutta elegante. Ai nostri sguardi interrogativi ci ha spiegato ironica “è perché  stasera mangiamo al ristorante!”».

Per il resto, si cerca di mantenere il più possibile un clima sereno e una routine delle giornate. Chi frequentava la scuola sta seguendo le lezioni online, chi aveva un progetto di scuola domiciliare sta cercando di continuare come si può. Come in tutte le case, davanti alla necessità dell'uso di tablet e cellulari si stanno allentando un po' le regole abituali. «Siamo fortunati, abbiamo un grande cortile a nostra disposizione, il campetto di calcio, una sala polifunzionale con dei vecchi attrezzi sportivi. E facciamo biscotti, cuciniamo molto, proprio come sta avvenendo in molte case oggi, in Italia! Abbiamo anche festeggiato un compleanno, con molte promesse di “poi faremo...”».

«La paura? Ce l'abbiamo tutti, e un po' va bene: se non travolge, aiuta a tenere accesi i campanelli di allarme. Abbiamo continui confronti, fatto anche colloqui personali per far affiorare le paure più profonde. C'è chi a casa ha qualcuno più fragile e teme di metterli a rischio, qualcuno avrebbe preferito chiudere tutto. Chi ha voluto prendersi qualche giorno di stacco, ha potuto farlo – ci spiega Anna. – La cosa importante è che qui, per garantire la protezione dei ragazzi, dobbiamo prima stare bene noi. Avere fiducia in quello che stiamo facendo. Questo virus ci sta riportando a ricordarci la dimensione umana dell'incertezza: certo ci spaventa, ma stiamo anche imparando tanto, che dobbiamo accompagnarci a vicenda e non lasciarci soli».

 

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Come puoi leggere nelle nostre interviste, la maggior parte dei nostri operatori è al lavoro. In condizioni ancora più difficili. Nonostante la paura.
Lo facciamo perché crediamo che le persone di cui ci prendiamo cura abitualmente abbiano ancora più bisogno di noi, in questo periodo.

Ma anche noi abbiamo bisogno: questa situazione comporta una riorganizzazione continua, nuove spese, corsi di formazione, diversi strumenti.

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