VOCI DALLE COOPERATIVE - ALL'EPOCA DEL COVID. Con i senza dimora a Rho

AngeloSottocoperta. Dove ci si va a riparare, quando si è una nave in mezzo alla tempesta.
È così che si chiamano i servizi dedicati alle persone senza dimora e in grave fragilità gestiti dalla cooperativa Intrecci a Rho: “Sottocoperta”. Luoghi che sono un rifugio, un luogo dove sostare e trovare un aiuto per ripartire. E che in questo periodo di emergenza sanitaria, lo sono - forse – ancora di più.

Un dormitorio che può accogliere fino a 16 persone, una mensa che sfama una sessantina di persone ogni mezzogiorno, tutti i giorni dell'anno, Natale e feste incluse, e mette in tavola anche la cena durante il periodo invernale, un ambulatorio medico, le docce due volte a settimana. E, a coordinare tutto, l'ascolto: l'ascolto di chi ha bisogno e la stesura di un progetto per aiutare a risalire dal fondo.


«In totale sono circa cinquecento le persone che assistiamo, coprendo un'area di sette comuni tra Rho e dintorni. Sono senza dimora, persone con problemi di dipendenza, chi esce dal carcere, chi perde il lavoro, chi arriva da storie di maltrattamento... c'è davvero di tutto. Il nostro lavoro è in concerto con i servizi sociali e con le Caritas cittadine» , così ci racconta Angelo Rossi, che è il coordinatore dei servizi Sottocoperta.
I servizi hanno sede in Casa Itaca, una struttura messa a disposizione dal comune di Rho per rispondere ai bisogni della grave emarginazione. «Tutti, tranne la mensa, che attualmente è in una sede in via don Giulio Rusconi, ma si sta ultimando una sede più ampia e definitiva nella parrocchia San Paolo». Angelo lavora con una equipe di sette operatori: «Ci sono educatori, un'assistente sociale, custodi notturni... ma contiamo anche del supporto fondamentale di circa 120 volontari, normalmente».
Normalmente, solo che questo periodo non è normale. E allora accade che la maggior parte dei volontari sia fuori gioco, anche per una questione di età.

«È uno dei motivi per cui abbiamo scelto di chiudere, fin dal 23 febbraio, da subito, la mensa – spiega Angelo. – L'altro è un problema di spazio: per garantire la distanza avremmo dovuto fare fino a quattro turni e sarebbe stato ingestibile».
Così hanno sostituito i pasti con dei pacchetti con il pranzo confezionato.
L'emergenza ha visto però anche qualche lato positivo: a sostituire i molti volontari più in là con l'età si sono presentati diversi giovani, che non avevano mai fatto volontariato in questi servizi, a dare una mano.
Sono aumentate, però, anche le persone che vengono a ritirare un pasto.
«Abbiamo contato anche 15% in più. Chi è arrivato di nuovo? Molte persone tra i 40 e i 60 anni. Molti italiani. Da come si presentano, come si vestono, capisci che sono persone che hanno perso il lavoro a causa del lockdown. Forse erano lavoretti piccoli, non in regola, o facevano le pulizie o qualche lavoro di cura. Ma ora sono a terra».

Resta aperto, invece, il dormitorio.
«Le regole abituali prevedono che gli ospiti escano al mattino entro le 8.30 e rientrino la sera, alle 19. Ovviamente non aveva senso: quando erano fuori gli uomini venivano fermati dalle forze dell'ordine, chiamati i servizi sociali.. quindi in accordo con Caritas e Comune abbiamo scelto di trasformare il dormitorio in casa a tempo pieno – racconta Angelo. – Ora stanno in casa, abbiamo chiarito bene le regole di comportamento, solo due di loro escono una volta al giorno per andare a ritirare i pasti pronti che ci fornisce una ditta. Teniamo monitorata la temperatura, tutti hanno i loro dispositivi di protezione».
La camera che sarebbe destinata alle donne, che in questo momento è vuota, viene tenuta libera e pulita nel caso in cui qualcuno dovesse aver bisogno di mettersi in isolamento.
«Ma per il momento non c'è stato nessun problema. Sarà che nessuno ha mai molta voglia di avvicinarsi o abbracciare queste persone», considera Angelo, tra l'ironia e l'amarezza. «In ogni caso, tutti si sono resi conto della serietà di questa malattia. Alcuni di loro sono anche anziani, ci sono altri disturbi di salute. La paura c'è e stanno rispettando seriamente le regole».

La paura c'era, soprattutto all'inizio, anche tra gli operatori.
«Le informazioni erano contrastanti e come tutti eravamo disorientati. Io ho detto: ragazzi, con chi se la sente andiamo avanti, chi no, non c'è problema. Hanno accettato tutti di andare avanti. Il lavoro e il rapporto di equipe è fondamentale per affrontare le difficoltà man mano che si presentano, confrontarsi, superare insieme. I tempi sono difficili, ma abbiamo molta consapevolezza del nostro lavoro. Quello che facciamo è voltarci a vedere chi sta peggio di noi e renderci conto che possiamo fare la differenza per chi sta peggio di noi».
E la fanno.

 dona

Come puoi leggere nelle nostre interviste, la maggior parte dei nostri operatori è al lavoro. In condizioni ancora più difficili. Nonostante la paura.
Lo facciamo perché crediamo che le persone di cui ci prendiamo cura abitualmente abbiano ancora più bisogno di noi, in questo periodo.

Ma anche noi abbiamo bisogno: questa situazione comporta una riorganizzazione continua, nuove spese, corsi di formazione, diversi strumenti.

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